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Il lato oscuro delle storie

blog famiglia film hollywood libri relazioni Mar 21, 2023

Che cosa sono le storie? Perché non possiamo farne a meno? Quanto ci definiscono?

Sono sempre stata ossessionata dalle storie, da quando, da bambina, mi sentivo capita e confortata più dalle pagine che dalla realtà, in libri che raccontavano le avventure di Peter Pan o Pippi Calzelunghe.

Le storie ci formano, e raccontano pezzi di noi. Risalire alle storie a cui ci siamo affezionati nel corso della nostra crescita è un buon esercizio per capire chi eravamo, chi siamo, chi vorremmo essere. Perché amavo più la ragazzina che alzava i cavalli di Cenerentola? Perché mi identificavo di più nel ragazzino volante che non voleva crescere che in Wendy che seduta e composta giocava a fare la mamma?

Le storie ci allenano ad immaginarci diversi, ma delle storie dobbiamo anche avere paura.

È la tesi interessante che porta avanti Jonathan Gottschall, docente del Jefferson College ne “Il lato oscuro delle storie” Bollati Borighieri. “Niente è meno innocente di una storia” dice e aggiunge “le storie sono un modo accattivante di strutturare un’informazione”. Le storie alterano la realtà, la definiscono, strutturano, creano trame, linee narrative, rapporti causa effetto, infiocchettando le “cose che accadono”, ammantandole di dimensione se non eroica, per lo meno narrativa. Se ci pensate diventiamo tutti personaggi dello storytelling quotidiano che portiamo avanti nella nostra testa e raccontiamo al nostro analista o sui social network.

Virginia Woolf nel 1931 scrive il suo capolavoro: Le onde, che non è un romanzo, è una cosa che non era mai stata scritta prima e che mai più verrà scritta. È un “poema drammatico” in cui i personaggi, lungi dall’essere i “personaggi a tutto tondo”, diventano figure bidimensionali che si esprimono attraverso monologhi esistenziali di pensiero. Virginia Woolf non aveva alcun interesse a “creare dei personaggi”, nemmeno a “raccontare una storia”, voleva invece “raccontare una mente che pensa, la vita stessa che scorre”. E la vita scorre non in trame precostituite che ricostruiscono le esistenze in storie di formazione, d’amore o avventura, ma sono attimi costantemente percepiti nel presente che fluttuano come le onde del mare. Non esistono le identità, non esistono gli interi: i protagonisti de Le onde sono frastagliati, come frastagliata è la vita, che può essere ricomposta solo ex post, mai mentre accade.

Anni dopo il filosofo francese Paul Ricoeur in “Tempo e racconto” avrebbe detto “il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo”.

Il tempo è un’entità astratta, che può essere compresa dagli esseri umani – e dal loro cervello- solo nel formato di “storie”. Senza questo continuo racconto non c’è nulla: identità, relazioni, il nostro essere nel mondo.

E quindi? Le storie sono una menzogna? Mi viene in mente quel romanzo molto bello di Jeffrey Eugenides che si intitola La trama del matrimonio dove la protagonista Madeleine (nome di certo non scelto a caso…) si trova nei primissimi anni Ottanta ad essere una giovane studentessa di letteratura inglese innamorata di Jane Austen che soccombe però alla vita e alla semiotica: un suo compagno- di cui si innamora- le fa conoscere Roland Barthes e il suo “Frammenti di un discorso amoroso”: che non è una storia, non ha personaggi che si incontrano, si innamorano e poi si sposano, ma è una collezione di aforismi, frasi prese da opere, poesie e romanzi sull’amore. “La necessità di questo libro sta nella seguente dichiarazione: il discorso amoroso è oggi di una estrema solitudine”. Madeleine smette di cercare Mr Darcy e trova nello strutturalismo una chiave per decostruirsi e decostruire le sue idee sull’amore. Il risultato è che però esce da una storia per entrare in un’altra e il suo amore per Leonard (il nome del suo compagno) anziché spegnersi, viene galvanizzato.

La sua diventa una storia d’amore che passa dallo strutturalismo.

E quindi, come se ne esce? Forse non se ne esce, ma ci viene in aiuto Italo Calvino, un innamorato pazzo delle storie che ha attraversato la semiotica a modo suo, uscendo dalle storie, analizzandole per poi ritornarci. Ne Le città invisibili scrive:

 L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

E in questo spazio ci siamo noi. Ognuno con la sua storia.